Lavoro familiare e presunzione di gratuità

La tipica presunzione di onerosità, che caratterizza il diritto del lavoro, in presenza di un rapporto di lavoro reso da parte dei familiari viene meno. Storicamente, infatti, si ritiene che l’apporto di lavoro del familiare, per l’attività imprenditoriale di famiglia e/o per il capo/capa famiglia, sia caratterizzato da gratuità, poiché motivato da uno spirito solidaristico e affettivo.

Principio di onerosità nel diritto del lavoro

Com’è noto, il diritto del lavoro è caratterizzato da un principio di onerosità. In buona sostanza, generalmente, si ritiene che, laddove vi sia la resa di una prestazione di lavoro, alla stessa debba corrispondere una controprestazione economica, come prima tutela per il lavoratore.

Il suddetto principio è insito nella definizione normativa del lavoratore subordinato, ma anche del lavoratore autonomo.

Difatti:

  • ai sensi dell’art. 2094 c.c., è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore;
  • ai sensi dell’art. 2222 c.c., quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme relative al contratto d’opera.

Sulla questione, anche la giurisprudenza reiteratamente è intervenuta, evidenziando “che ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro si deve presumere come effettuata a titolo oneroso” (cfr. ex plurimis Cass. 20 febbraio 2006 n. 3602).

Principio di gratuità nel lavoro familiare

Quando si affrontano le casistiche del lavoro reso dai familiari, si deve considerare che buona parte delle tipiche regole del diritto del lavoro viene meno. Infatti, in questi casi, si ritiene che le tutele tipicamente previste, in particolar modo per il lavoro dipendente, non si rendano necessarie, in considerazione del fatto che, nella realtà dei fatti, non dovrebbero presumibilmente riscontrarsi, tra le parti, diversi e contrapposti centri di interesse.

In altre parole, i frutti dell’apporto di lavoro del familiare sarebbero condivisi tanto dal lavoratore quanto dal titolare dell’attività, e resterebbero nel medesimo nucleo; pertanto, il lavoratore familiare renderebbe, presumibilmente, un apporto di lavoro connotato dall’ affectionis vel benevolentiae causa (ossia per ragioni solidaristiche e affettive), senza che si ravvisi alcun tipo di animus contrahendi.

Quanto sopra, in tutta evidenza, renderebbe inutile garantire l’intero novero delle tutele e trattamenti previsti per i lavoratori (e, in particolar modo, per i lavoratori subordinati) dal nostro ordinamento; in particolare, in presenza del lavoro reso dal familiare, non si giustificherebbe una spesa da parte dello Stato per garantire le tutele correlate all’art. 38 Cost. (quelle, quindi, relative alla legislazione sociale) oppure, ancora, non si giustificherebbe un risparmio fiscale sul costo del lavoro aziendale.

In buona sostanza, nell’ambito del lavoro familiare, si mira ad evitare un’indebita maturazione di trattamenti che, ingiustificatamente, graverebbero sulle casse statali; ratio primaria, questa, della presunzione di gratuità del lavoro reso dai membri della famiglia, o da coloro i quali possono ad essi essere assimilati.

Per i motivi sopra esposti, tale presunzione di gratuità, nelle suddette ipotesi, deve essere ritenuta la regola prioritaria, ossia la prima vera e naturale configurazione dell’apporto di lavoro reso dai membri della famiglia; pur dovendosi osservare come detta regola possa essere invero capovolta, a fronte della “prova rigorosa degli elementi tipici della subordinazione, tra i quali, soprattutto, l’assoggettamento al potere direttivo-organizzativo altrui e l’onerosità” (Cfr. ex plurimis Cass. ord. 30 settembre 2020, n. 20904; ed anche Cass. nn. 8364/2014; 9043/2011; 8070/2011; 17992/2010).

A proposito di questo, i vari documenti di prassi amministrativa, susseguitisi nel tempo sul tema, hanno perpetuamente chiarito la necessità di una valutazione, ogniqualvolta, effettuata “caso per caso”; confermando l’astratta possibilità di un rapporto non necessariamente gratuito tra i familiari.

Le fonti del principio di gratuità del lavoro familiare sono, prioritariamente, giurisprudenziali e di prassi (oltreché dottrinali). Pochi, infatti, sono i riferimenti normativi che sanciscono la gratuità dell’apporto di lavoro reso dai parenti o similari.

Riepilogando:

  • in giurisprudenza, a più riprese si è evidenziato che “tra persone legate da vincoli di parentela o di affinità opera una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa, che trova la sua fonte nella circostanza che la stessa viene resa normalmente affectionis vel benevolentiae causa” (Cfr. ex plurimis Cass. ord. 30 settembre 2020, n. 20904);
  • nei documenti di prassi amministrativa, tra le tante affermazioni, si chiarisce che “Nei casi in cui i soggetti del rapporto denunciato da imprese individuali o studi professionali siano coniugi, parenti entro il 3° grado ed affini entro il 2° grado conviventi del datore di lavoro, il rapporto si presume gratuito” (Circ. Inps 8 agosto 1989, n. 179);
  • a livello normativo, fu sancito che “Con specifico riguardo alle attività agricole non integrano in ogni caso un rapporto di lavoro autonomo o subordinato le prestazioni svolte da parenti e affini sino al sesto grado in modo meramente occasionale o ricorrente di breve periodo, a titolo di aiuto, mutuo aiuto, obbligazione morale senza corresponsione di compensi, salvo le spese di mantenimento e di esecuzione dei lavori” (art. 76, D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276).

Ad ogni modo, la presunzione di gratuità che caratterizza il lavoro dei familiari risulta senza dubbio sottintesa allorquando si procede a una lettura del disposto di cui all’art. 2083 c.c.:

“Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.

Sulla questione, preme notare come vi sia una sottile distinzione tra la presunzione di gratuità retributiva, frutto di un lungo percorso giurisprudenziale, e la presunzione di gratuità contributiva e/o assistenziale, quest’ultima disciplinata da alcuni specifici riferimenti normativi e di prassi (benché ovviamente correlata a quella retributiva).

Il concetto di familiare

Evidenziata l’esistenza della presunzione di gratuità per i familiari che rendono una prestazione di lavoro per l’attività imprenditoriale di famiglia e/o per il capo/capa famiglia (allorquando fortemente connotata da personalità), resta da chiarire quando si sia in presenza di un familiare.

A tale scopo, possono essere considerati i seguenti riferimenti:

  • l’art. 77 c.c., ai sensi del quale “La legge non riconosce il vincolo di parentela oltre il sesto grado, salvo che per alcuni effetti specialmente determinati”, oltreché gli ulteriori articoli di cui al Titolo V del Codice civile;
  • alcune diposizioni specifiche (ossia “gli effetti specialmente determinati” indicati dall’art. 77 c.c.), tra cui ad esempio il succitato art. 76, D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276;
  • il comma 3 dell’art. 230-bis del codice civile, istitutivo dell’impresa familiare, ai sensi del quale “Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”.

Invero, la giurisprudenza ha evidenziato come la gratuità diventi presunzione anche in presenza di situazioni meramente assimilabili a quelle del familiare, ovvero quando vi sia, tra gli aspetti più importanti, una semplice convivenza, ancorché non necessariamente tra persone legate dal vincolo parentale. In tali casi, infatti, i frutti dell’apporto di lavoro sarebbero comunque, presumibilmente, ricadenti all’interno del medesimo nucleo di interessi, in ragione della convivenza more uxorio.

A tal proposito, si è detto che, anche nei casi suddetti, regna una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa, insita “nell’elemento psicologico che normalmente accompagna tali prestazioni, e cioè, nell’essere queste eseguite per spirito di gratitudine o di solidarietà, al di fuori di ogni animus contrahendi” (Cass. 31 gennaio 1976, n. 276).

Pertanto, anche il convivente di fatto, ai fini dell’insorgenza della gratuità dell’apporto lavorativo, può essere considerato un familiare; laddove, per “conviventi di fatto” si intendono ormai, ex lege, “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile” (art. 1, c. 36, L. 76/2016).

art. 2083 Codice Civile

Cass. ord. 30 settembre 2020 n. 20904

Dott. Marco Tuscano  – Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A.