licenziamento del lavoratore avviato obbligatoriamente

Con la sentenza n. 606/2019 il Tribunale del Lavoro di Padova affronta e risolve due interessanti questioni: la prima riguarda le conseguenze in caso di accertamento della illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore assunto obbligatoriamente; la seconda inerisce la quantificazione del risarcimento dopo la declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, del d.l. 87/18 convertito con modifiche, nella legge 96/2018.

La Società convenuta aveva licenziato un lavoratore avviato obbligatoriamente ex lege 68/99 per giustificato motivo oggettivo consistente nella soppressione del suo posto di lavoro a seguito della esternalizzazione ad una società specializzata delle funzioni cui lo stesso dipendente era addetto.

Ma a seguito del predetto licenziamento la Società convenuta veniva ad occupare un numero inferiore di assunti obbligatoriamente rispetto alla quota di riserva alla stessa spettante ai sensi dell’art. 3 legge 68/99.  Pertanto, ai sensi dell’art. 10, comma 4, il licenziamento stesso risultava annullabile.

Accertato documentalmente che il licenziamento era annullabile il Giudice si è posto il quesito della sanzione applicabile: la reintegra ed il risarcimento pari a tutte le retribuzioni perse dal licenziamento alla effettiva reintegra, ai sensi dell’art. 2 del D.lgs n. 23/15 (licenziamento discriminatorio, nullo od orale), oppure il solo risarcimento del danno ex art. 3 dello stesso D.lgs 23/15? Il Giudice osserva che il comma 4 del citato art. 2 del D.lgs 23/15 prevede la tutela sopra descritta (reintegra e risarcimento del danno pieno) solo per i casi in cui sia accertato che il motivo del licenziamento consista nella disabilità fisica o psichica del lavoratore. Nel caso in esame, invece, il Giudice rileva che la soppressione del posto per esternalizzazione del servizio sia effettiva e che quindi debba trovare applicazione la sola indennità risarcitoria di cui all’art. 3 dello stesso D.lgs 23/15.

La prima conclusione cui si deve, quindi, giungere è che, sempre nel rispetto della quota di riserva, in presenza di un valido ed effettivo giustificato motivo oggettivo il licenziamento anche dell’assunto obbligatoriamente è legittimo, a condizione che il datore di lavoro dimostri anche la insussistenza di altre mansioni – anche inferiori- compatibili con lo stato di salute del lavoratore cui poterlo adibire.

Il mancato esperimento di verificare residue possibilità di impiego (repechage) – che invece erano state espressamente ammesse come possibili dalla stessa Società convenuta (riconoscimento di aver adibito occasionalmente il lavoratore ad altre mansioni) – nel caso di specie è stato utilizzato dal Giudice come criterio per graduare la sanzione economica irrogata.

Come a tutti noto la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, del d.l. 87/18 convertito con modifiche, nella legge 96/2018, nella parte in cui prevedeva che il risarcimento economico andasse determinato in misura automatica in base alla sola anzianità di servizio del lavoratore licenziato, eliminando ogni discrezionalità da parte del Giudice.

Secondo la Corte, invece il Giudice – nel rispetto del limite minimo – 6 mensilità – e di quello massimo – 36 mensilità- deve tener conto in via principale dell’anzianità di servizio, ma anche del numero dei dipendenti occupati dalla Società, delle dimensioni economiche dell’attività svolta ed infine del comportamento e condizioni delle parti.

Nel caso di specie il Giudice ha ritenuto che non solo il licenziamento fosse annullabile per violazione della quota di riserva e che allo stesso andasse applicata la sola indennità risarcitoria, ma che quest’ultima  – proprio in base al comportamento della parte convenuta che non aveva svolto alcuna verifica sull’esistenza di mansioni diverse cui poter adibire l’assunto obbligatoriamente ed anzi ne aveva ammesso l’adibizione ad esse anche se occasionalmente –  andasse stabilita in quindici mensilità di retribuzione globale di fatto.

 Avv. Stefano Ferrante dello Studio Legale De Martini – Ferrante & Associati