Intimazione di licenziamento in periodo di divieto – accesso alla NASPI

– è precluso l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo di cui agli artt. 4, 5 e 24 della legge 223 del 1991;

– sono sospese quelle pendenti e avviate dopo il 23 febbraio 2020;

– non è possibile, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati, intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (economico-organizzativi) ai sensi dell’art. 3, legge 604 del 1966.

Senza soffermarci in questa breve disamina sull’ambito di applicazione della norma e sugli effetti sanzionatori del divieto (sui quali si è già scritto e che sono ormai abbastanza ben delineati) è invece il caso di tornare sul rischio che al lavoratore possa essere precluso l’accesso alla NASPI in quanto destinatario di un licenziamento nullo.

Ciò che in effetti era stato ipotizzato da alcuni (tra i quali il sottoscritto), si è puntualmente verificato in alcuni territori, ove le locali sedi INPS hanno talvolta negato (anche solo informalmente, a quanto pare) l’erogazione della NASPI ai lavoratori destinatari di licenziamenti di carattere economico-organizzativo, sulla base della pretesa nullità del licenziamento intimato per tali motivi in periodo di divieto.

A fare chiarezza è recentemente intervenuto l’INPS, con messaggio n. 2261 del 1° giugno 2020, precisando che le sedi territoriali dell’Istituto possono procedere all’accoglimento delle domande di NASPI da parte dei lavoratori licenziati per ragioni oggettive nel periodo di divieto.

Come sembrava evidente agli operatori (ma è stata necessaria una nota dell’Istituto) la prestazione economica di cui si discute spetta a tutti i lavoratori che hanno perso involontariamente la loro occupazione, a nulla rilevando la nullità del licenziamento: questione che al più riguarda il lavoratore e il datore di lavoro.

Tuttavia, precisa l’INPS (con argomento altrettanto pacifico), le erogazioni saranno effettuate agli aventi diritto con “riserva di ripetizione”, onde ottenerne la restituzione nei casi in cui il lavoratore fosse reintegrato all’esito del contenzioso giudiziario.

A parte l’onere imposto al lavoratore di comunicare all’INPS l’esito della causa ai fini della restituzione di quanto percepito a titolo di NASPI, è invero ormai da tempo consolidato nella giurisprudenza della Suprema corte il principio in base al quale le indennità corrisposte a tale titolo (in precedenza, indennità di disoccupazione) non sono detraibili quale aliunde perceptum in caso di accertamento dell’illegittimità del licenziamento e condanna del datore di lavoro.

Vengono quindi regolarmente rigettate le eccezioni datoriali attraverso le quali si chiede al Giudice di detrarre dalle somme riconosciute al lavoratore tra la data di licenziamento e la sentenza di condanna anche quelle percepite a titolo di prestazioni per lo stato di disoccupazione.

Dopo iniziali (ma ormai ampiamente superate) oscillazioni, è pacifico che solo i redditi da lavoro (autonomo o subordinato) possono essere detratti, mentre non possono essere detratte le somme erogate a titolo di indennità di disoccupazione, in quanto somme destinate ad essere restituite all’Istituto in caso di accertamento dell’illegittimità del recesso (cfr., tra le tante, Cass. 18 giugno 2018, n. 16029). Cioè a dire che, per la loro stessa natura, le prestazioni assistenziali in esame presuppongono l’inesistenza di un rapporto di lavoro e della relativa retribuzione (onde evitare un indebito arricchimento del lavoratore), mentre in caso di accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento (almeno in tutela reale) l’onere di ricostituire il rapporto anche agli effetti retributivi è previsto in capo al datore di lavoro.

 

articolo a cura Avv. Stefano Ferrante