I ragionevoli accomodamenti nel licenziamento per inidoneità sopravvenuta alla mansione

Trattasi, tuttavia, di una decisione da valutare sempre con estrema cautela e attenzione, vista la pesantezza delle conseguenze derivanti da una eventuale pronuncia di non conformità a legge di un simile licenziamento.

A seconda delle dimensioni aziendali e del tempo in cui il rapporto di lavoro è stato instaurato, le conseguenze sono, infatti, le seguenti:

–          rapporto instauratosi ante 7 marzo 2015, con datore avente fino a 15 dipendenti: licenziamento illegittimo, con diritto alla tutela di cui all’art. 8 legge 604/1966 (indennità risarcitoria da 2,5 a 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto), anche se sussistono sentenze che hanno ritenuto un simile recesso radicalmente nullo, con diritto del lavoratore al ripristino del rapporto e alla corresponsione di tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento al ripristino, secondo le regole del risarcimento di diritto comune, senza soglie risarcitorie minime o massime;

–          rapporto instauratosi ante 7 marzo 2015, con datore avente più di 15 dipendenti: licenziamento illegittimo, con applicazione della tutela di cui all’art. 18, commi 4 e 7, Legge 300/1970 (annullamento licenziamento, reintegra o indennità sostitutiva, indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegra – dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione – con un massimo di 12 mensilità, regolarizzazione contributiva);

–          rapporto instauratosi post 7 marzo 2015, indipendentemente dalle dimensioni aziendali: licenziamento nullo ex art. 2 d.lgs. 23/2015 (reintegra o indennità sostitutiva, indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegra – dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative – con un minimo di 5 mensilità, regolarizzazione contributiva).

In simili casi, la corretta delimitazione del potere datoriale di recesso è un’operazione che richiede l’accurata analisi di una pluralità di fonti normative diverse, sia nazionali che comunitarie, sulle quali ha molto inciso, negli ultimi anni, l’opera interpretativa della giurisprudenza.

In particolare, prima di attuare un licenziamento per inidoneità sopravvenuta alla mansione, il datore di lavoro prudente, che voglia ridurre al minimo il rischio di successiva contestazione del recesso, dovrà verificare di aver posto in essere, con riferimento al luogo di lavoro e in genere alla propria organizzazione aziendale, tutti i “ragionevoli accomodamenti” utili a consentire al prestatore dichiarato inidoneo di continuare a rendere la propria opera, conservando l’occupazione.

Tali “ragionevoli accomodamenti” – per lo più sottovalutati dalle Aziende, ma nei quali spesso risiede la salvezza dei provvedimenti espulsivi conseguenti a inidoneità – sono imposti dalla normativa comunitaria e precisamente dalla Direttiva 2000/78/CE all’art. 5 (che prevede l’obbligo del datore di lavoro di adottare “i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili – a cui vengono parificati gli inidonei – di accedere a un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”) e al considerando n. 21 (che precisa che per determinare se le misure in questione diano luogo ad oneri finanziari sproporzionati è necessario tener conto dei costi, finanziari e di altro tipo, delle dimensioni e delle risorse finanziarie della organizzazione o della impresa, della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni).

A livello nazionale, di essi tratta l’art. 3, comma 3-bis, d.lgs. 216/2003 (attuativo della citata Direttiva), ove si legge: Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigenti

Detta disposizione non definisce quali siano concretamente gli “accomodamenti ragionevoli”, ma in ciò soccorre la Convenzione delle Nazioni Unite, ratificata dall’Italia con Legge 18/2009, il cui articolo 2 prevede che per “accomodamento ragionevole” debba intendersi ogni modifica o adattamento che non impone “un carico sproporzionato ed eccessivo”.

Ancor più precisa è la giurisprudenza comunitaria formatasi negli ultimi anni, che annovera tra gli “accomodamenti ragionevoli”, di cui può essere onerato il datore di lavoro, la sistemazione dei luoghi di lavoro, l’adattamento delle attrezzature, la modifica dei ritmi di lavoro, una diversa ripartizione dei compiti e la riduzione dell’orario di lavoro.

Da quanto sopra si deduce che, per poter legittimamente risolvere il rapporto a fronte di una conclamata inidoneità, il datore di lavoro dovrà dimostrare non solo di non poter adibire il lavoratore interessato ad una mansione equivalente o inferiore (ciò che gli è imposto dall’art. 42 d.lgs. 81/2008), ma anche di non poter ovviare a tale impossibilità attuando ragionevoli accomodamenti, pure di natura organizzativa, in quanto gli stessi gli imporrebbero la sopportazione di un onere finanziario irragionevole e sproporzionato.

Trattasi, lo si ribadisce, di un passaggio troppo spesso sottovalutato, ma di fondamentale importanza, espressamente riconosciuto anche dalla più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione che, valorizzando la normativa comunitaria, ha definito i limiti al recesso in ipotesi di sopravvenuta inidoneità alla mansione, specificando i parametri a cui riferirsi per valutare la “ragionevolezza” degli accomodamenti imposti alle aziende.

In particolare – superando l’originario assunto della non modificabilità dell’assetto organizzativo dell’impresa, insindacabilmente stabilito dall’imprenditore (statuito da Cass. S.U. 7 agosto 1998, n. 7755) – la Suprema Corte:

–          con sentenza 19 marzo 2018, n. 6798, ha sostanzialmente affermato che non costituisce un irragionevole accomodamento lo spostamento dei colleghi dell’inidoneo ad altre mansioni, tale da consentire all’interessato di rendere la prestazione in altra posizione, ove ciò non arrechi un pregiudizio eccessivo (al datore, in termini di costo economico, e ai colleghi, in termini di perdita di professionalità);

–          con sentenza 26 ottobre 2018, n. 27243, ha precisato che l’obbligo di ricollocamento dell’inidoneo va valutato alla stregua del principio di ragionevolezza, trovando come limiti, da un lato, l’organizzazione interna dell’impresa (e, soprattutto, il mantenimento dei pregressi equilibri finanziari, senza obbligo di attuare stravolgimenti organizzativi “eccessivi”) e, da altro lato, il diritto degli altri lavoratori alla conservazione di mansioni che ne valorizzino l’esperienza e la professionalità acquisita (non potendo imporsi al datore – in quanto onere eccessivo, irragionevole e sproporzionato – il mutamento in pejus dei compiti assegnati agli altri dipendenti).

Prima di licenziare, quindi, bisognerà escludere la possibilità di adibire il lavoratore inidoneo a mansioni equivalenti o inferiori, ma pure escludere la possibilità di conservargli l’occupazione attuando ragionevoli adattamenti (tra i quali rientra anche la possibilità di incidere sulla posizione degli altri lavoratori), senza incorrere in oneri finanziari eccessivi.

A tal fine, è consigliabile predisporre una accurata valutazione di matrice organizzativa ma anche (rectius, soprattutto) economica, da utilizzare a conferma della bontà del licenziamento in un eventuale successivo giudizio.

La strada del licenziamento per inidoneità sopravvenuta è tutta in salita.

Articolo a cura dell’Avv. Cinzia Di Saverio dello Studio Legale De Martini – Ferrante & Associati.