divieto di licenziamento

Il provvedimento d’urgenza in oggetto, recante tra l’altro misure di sostegno alle imprese e ai lavoratori, introduce una norma di enorme rilievo e impatto pratico sull’attività di impresa.

L’art. 46 prevede infatti che a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (17 marzo 2020) e per i successivi 60 giorni:

– è precluso l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo di cui agli artt. 4, 5 e 24 della legge 223 del 1991;

– sono sospese quelle pendenti e avviate dopo il 23 febbraio 2020;

– non è possibile, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati, intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (economico-organizzativi) ai sensi dell’art. 3, legge 604 del 1966.

La norma, la cui ratio è chiara e in linea con le dichiarazioni e i provvedimenti del governo dei giorni precedenti, tesi a salvaguardare il lavoro con il previo ricorso alle ferie, ai permessi e agli ammortizzatori sociali (riformulati e rifinanziati dal decreto stesso), ha evidentemente carattere eccezionale, e nella fretta non ha potuto tenere conto di situazioni del tutto peculiari, che sarebbe stato preferibile rimettere alla volontà delle parti, sia pure in una delle già note sedi protette.

Ma andiamo con ordine, e vediamo anzitutto l’ambito di applicazione.

La norma è di tale ampiezza da ricomprendere tutti i licenziamenti per motivo economico organizzativo.

Il divieto non vale ovviamente per i licenziamenti disciplinari, il licenziamento per superamento del periodo di comporto e i licenziamenti in ambito di libera recedibilità (lavoro domestico, periodo di prova e dirigenti; tutte categorie cui non si applica la legge 604/66), con le seguenti precisazioni.

A mio avviso il recesso in prova potrebbe essere impugnato dal lavoratore per “motivo illecito, unico e determinante”, laddove l’interessato fosse in grado di provare di essere stato licenziato per motivi totalmente estranei all’esperimento contrattuale e, invece, riconducibili al solo calo di attività o alle difficoltà dovute all’emergenza: vi sarebbe in tal caso la violazione di una norma imperativa.

Quanto ai dirigenti, che certamente non possono essere licenziati all’interno di una procedura di licenziamento collettivo (per espressa previsione di legge), residuerebbe la possibilità del licenziamento individuale, anche per motivi organizzativi.

Il licenziamento individuale per motivi oggettivi del dirigente non è infatti disciplinato dall’art. 3, legge 604/66 (“giustificato motivo oggettivo)”, ma rientra nell’area della libera recedibilità. La tutela del dirigente per questo tipo di licenziamenti è assicurata dal contratto collettivo dei vari settori, che prevede un indennizzo (crescente con l’anzianità) in caso di licenziamento ingiustificato.

Tuttavia, anche nel licenziamento individuale del dirigente andrei cauto, se non altro per quei dirigenti che sia possibile definire tali solo per la qualifica posseduta, senza essere dotati di ampi poteri: questi dirigenti potrebbero sostenere di non essere veri e propri dirigenti, per rientrare nel divieto temporaneo di legge.

Come accennato sopra, il divieto assoluto – sia pure temporaneo – di procedere a tale tipologia di licenziamento, se pare indubbiamente in linea con condivisibili politiche di emergenza, ha tuttavia tralasciato di prendere nella giusta considerazione alcune eccezioni che meritavano una diversa disciplina, onde non ostacolare soluzioni certamente estranee all’emergenza.

Molte possono essere le situazioni di oggettiva difficoltà, o anche solo dettate da scelte economico-organizzative precedenti l’entrata in vigore del decreto (o precedenti il 23 febbraio, per i licenziamenti collettivi), che trovano ora un insormontabile ostacolo che nulla ha a che vedere con le ragioni a monte del recesso.

Solo per indicarne alcune, che si sono concretamente verificate e ho affrontato nei primi giorni, ricordiamo il licenziamento per impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della prestazione, derivante da certificata inidoneità al lavoro.

Di regola si tratta di licenziamenti che, anche se dovuti a ragioni di salute del lavoratore, rientrano in quelli di cui all’art. 3, legge 604/66, perché riguardano pur sempre il buon funzionamento dell’impresa.

Non a caso questi licenziamenti sono preceduti (per le aziende con più di 15 dipendenti) dalla previa procedura di conciliazione da incardinare presso gli Ispettorati Territoriali del Lavoro.

Anche tali licenziamenti sono temporaneamente preclusi (se la procedura è avviata nel periodo di divieto), e il rischio di mantenere in forza tali lavoratori, sospesi con o senza retribuzione, è a carico del datore di lavoro.

Altra ipotesi è quella derivante da procedure di licenziamento collettivo ormai al termine, esaurito l’esame congiunto, con o senza accordo.

Anche in tali casi si verifica un’impasse che potrebbe essere del tutto priva di giustificazione e addirittura contro gli interessi delle parti che già avessero sostanzialmente individuato un accordo.

Infatti, l’accordo in sede protetta potrebbe non essere utile a coprire tutti i rischi che corre il datore di lavoro.

Se da un lato il lavoratore rinuncia in sede protetta ad impugnare il licenziamento intimato nel periodo di divieto, e viene quindi meno il rischio datoriale di subire un contenzioso su tale aspetto (salva l’ipotesi in cui si volesse ravvisare addirittura la totale indisponibilità di tale divieto di recesso), è possibile che al lavoratore venga negato l’accesso alla NASPI (o che gli Istituti ne posticipino l’erogazione), e cerchi poi di rivalersi sul datore di lavoro per il danno subito, certamente estraneo al verbale di conciliazione, in quanto pregiudizio insorto successivamente alla firma dell’atto abdicativo.

Il divieto di licenziamento è assoluto, e non permette a mio avviso di essere aggirato neppure con un uso strumentale del preavviso; vale a dire con un licenziamento intimato in periodo protetto ma destinato ad avere effetti successivamente.

Quanto al regime sanzionatorio derivante dall’inosservanza della norma, sarebbe stato preferibile prevedere una diversa disciplina per i motivi di licenziamento direttamente riconducibili alle difficoltà dell’emergenza sanitaria in corso rispetto a quelli derivanti da motivo economico-organizzativi estranei a tale emergenza, il che avrebbe tuttavia potuto agevolare pratiche elusive.

La formula normativa utilizzata è perentoria (il potere di recedere “è precluso”).

In giudizio proverei certamente a difendere la tesi della mera inefficacia del licenziamento, ritenendolo un provvedimento destinato ad avere effetti alla fine del periodo di divieto (60 giorni, se non prorogati), ma è evidente che il licenziamento intimato in spregio al divieto rischia la ben più grave sanzione della nullità per contrarietà a norme imperative, con conseguente tutela massima a prescindere dal numero di dipendenti occupati (reintegrazione nel posto di lavoro e retribuzioni dal licenziamento alla reintegra).

Chiudo con una veloce riflessione sul licenziamento disciplinare.

Benché certamente estraneo al divieto, ritengo tuttavia necessario adottare la massima cautela nel periodo di decorrenza del termine a difesa e nella valutazione di cause ostative all’esercizio del diritto stesso.

E’ pacifico nella giurisprudenza (ormai consolidata) di legittimità che il lavoratore non possa opporre al datore di lavoro il suo semplice stato di malattia per paralizzare l’azione disciplinare (e in tal modo procrastinare il termine di presentazione delle difese scritte o il giorno dell’audizione, se richiesta): è necessario che il lavoratore versi in una situazione ostativa particolarmente grave (v. Cass. 19 giugno 2019, n. 16421).

Non mi pare sostenibile una generalizzata sospensione delle procedure disciplinari, ma nella situazione in cui ci troviamo porrei molta attenzione alle assenze apparentemente ingiustificate e ai periodi durante i quali decorrono i termini a difesa ma il lavoratore resti silente o rappresenti situazioni ostative legate allo stato di emergenza: ogni caso va trattato singolarmente.

 

articolo a cura Avv. Alessandro Di Stefano